Intervista al regista Michele Pinto

Luana Lamparelli
L'arte é un mestiere per chi sa soffrire, appartiene a chi sa osservare la realtá
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La nuova intervista di Ars Artis vi fa incontrare oggi Michele Pinto, regista pugliese che sempre più spesso fa parlare di sé nel panorama nazionale e oltralpe. L’ho incontrato durante le nuove riprese sulla tematica delicata della condizione dei richiedenti asilo politico, un progetto filmico realizzato con l’associazione di volontariato Salah e giovani provenienti dal Mali e dalla Nigeria.

Un lavoro, questo, che parte dal loro vissuto di svantaggio , in cui il regista Pinto vuole sottolineare  la situazione iniziale di sconfitta per  sviluppare poi un iter dal finale aperto, raccontando qualcosa di universalmente valido. È questo un progetto che lo sta assorbendo molto, non solo sotto il profilo cinematografico e professionale, ma anche moralmente e spiritualmente, come lui stesso dichiara. Tra funzione sociale del cinema, fonti di ispirazione e passioni che segnano una vita, Michele Pinto ci ha parlato di sé.

Nella tua vita ci sono due grandi passioni che scopri bambino e coltivi costantemente: i fumetti e il cinema. Quale delle due però scopri per prima e da cosa scaturisce l'altra? Come le coniughi nella tua produzione artistica?
Inizio a fruire soprattutto del cinema all’età di 4 anni, quando vedo per la prima volta “L’Orca assassina” ed è l’arte con cui mi son sempre cimentato di più. Considero l’arte dei comics non solo la più antica forma d’arte -basti pensare alle prime pitture rupestri ritrovate nelle caverne degli uomini preistorici- , ma anche la suprema, poiché unisce due altre discipline artistiche molto importanti: la pittura e la scrittura. Del resto anche alla base dell’ottima lavorazione di un film c’è sempre un incredibile lavoro di storyboarding, ovvero di preimmaginazione di quelle che saranno le diverse inquadrature da realizzare, quindi anche il cinema è a suo modo figlio dei fumetti. Per quanto però sia un grandissimo collezionista di fumetti (possiede circa 20.000 volumi, ndr), non ho mai avuto grandi pretese pittoriche.

Molti lavori, molti premi, molti riconoscimenti a livelli nazionali ed internazionali. Sei un regista. Meglio l'identità di genere o l'identità di ruolo?
Di ruolo. Sai, si dice che per fare il regista devi provare enorme repulsione per la realtà e per tante cose che non vanno a questo mondo, tanto da volerlo ricostruire all’interno di quattro lati: all’interno di un’inquadratura. Ecco, questo è il compito del regista. Il principio che asserisce che “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma” non lo reputo affatto applicabile al ruolo del regista. Il regista infatti è una delle poche figure lavorative che pesca elementi di vario genere (musiche, attori, location, maestranze), li fonde assieme e ne fa uscire una cosa nuova di natura completamente diversa rispetto a quelle  degli ingredienti iniziali.

Il cinema e la produzione filmica in generale: arte, mestiere, strumento di comunicazione. La tua opera, i tuoi lavori: come declini questi tre aspetti e qual è il modo strettamente personale con cui concepisci il cinema e la produzione cinematografica? Qual è l'obiettivo che persegui?
Io ritengo, come sosteneva già qualcuno prima di me, che il cinema e in generale le immagini in movimento siano l’arma più forte. Potevo fare il politico, il medico, ma alla fine per cercare di migliorare la società ho abbracciato quest’arte, perché sono sicuro che niente come il cinema possa dettare modelli e inviare messaggi costruttivi. In più, se ci pensi, oggi la telecamera è la vera “signora” della vita: siamo circondati da telecamere di sorveglianza, talvolta le indossiamo persino, o le rechiamo sempre con noi grazie ai nostri smartphone tuttofare.

L’ispirazione per te è…
Molto spesso, e non solo in quest’arte, l’ispirazione deriva dal dolore e dall’aver sofferto. Se hai sofferto, o hai vissuto emozioni in modo intenso, hai certamente qualcosa da raccontare  e che appassioni il pubblico. Del resto è stato già dichiarato che il cinema non morirà mai finchè  non smetteremo di osservarci. Ma se sei felice, del narrato sulla tua felicità ti garantisco che non gliene frega niente a nessuno.

Fabrizio Bentivoglio ha dichiarato: "Gli attori americani usano il Metodo perchè negli Stati Uniti c'é un manuale per ogni cosa. Noi invece inventiamo, non riproduciamo pedissequamente". Cinema italiano contro cinema americano. Per dirla alla nostra, come la vedi? Insomma: croce e delizia dell'uno e dell'altro, e poi, se possibile, la tua preferenza. Motivata però.
Anche in Italia si seguono metodi. Lo sanno bene soprattutto gli attori che fan la gavetta a teatro: i loro studi variano in base al precorso che intraprendono. Abbiamo così  certi che studiano lo Stanislavski, altri che macinano parecchio la commedia dell’arte e tanto teatro vernacolare che è sempre una ottima palestra, poiché  la recitazione dialettale è quella più genuina che rende effettivamente le intenzioni vere di un personaggio. Io stesso provo in dialetto molte volte coi miei attori, affinchè  le battute da recitare abbiano l’effetto di frasi tirate fuori dallo stomaco, anche se poi  le riprese sono in italiano. Al di là di quest,o il percorso ideale come sempre è quello delle contaminazioni: lasciarsi affascinare ed influenzare da tutto e studiare, incuriosendosi sempre. Una volta parlavo con un attore di cinema che, di colpo, s’ipnotizzo per spiare un clochard che, a pochi metri da noi, stava scartando una caramella. La cosa fu davvero illuminante: in quel momento egli studiava per creare un ruolo lasciandosi ispirare dalla realtà. È proprio vero che Mercurio, oltre ad essere il messaggero degli dei, è  anche il protettore dei ladri, quindi anche degli artisti.

Quando non sei dietro la macchina da presa o davanti al computer come dovrebbe immaginarti chi non ti conosce?
Col kimono da karate ad allenarmi in palestra. E’ uno sport che pratico da circa 15 anni e che rappresenta la massima fusione di benessere relativo a psiche, anima e corpo.

venerdì 5 Dicembre 2014

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