Cultura

Bari saluta Time Zones 2007

Antonio Tuzza
Un'emozionante ultima serata al Royal, tra immagini e suoni
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Lunga e densa la serata conclusiva della rassegna “Time Zones 2007”, tenutasi al Royal il 29 novembre, che, anche per questa ventiduesima edizione ha confermanto la volontà di portare a Bari le proposte musicali più anticommerciali e di frontiera del pianeta. Una vera e propria filosofia culturale, nella quale gli artisti invitati si sono inseriti perfettamente. La serata è stata introdotta dalla proiezione di “Manifesto, meglio dire manifestavo” di Nico Cirasola, un documentario che ricorda i tragici fatti del 1977, "anno nero" nella storia di Bari, culminati con la morte di Benedetto Petrone. Immagini, quelle di Cirasola, che raccontano una Bari lontana, centro attivo delle contestazioni politico-sociali nazionali degli anni ‘70. Ciò che ha stupito piu d’uno è stato vedere la partecipazione plebiscitaria che esisteva allora a in città, per manifestazioni di quel genere, ma che oggi ci si aspetterebbe solo in città come Roma o Milano.

Subito dopo, il palco è stato affidato all’artista d’apertura, la cantautrice americana Larkin Grimm, che con voce e chitarra fingerpicking ha proposto un’emozione diversa per ogni brano. La bella Larkin, vestita di nero sotto un cappello a falda larga dello stesso colore, è nota per interpretare melodie orientali, accanto a scale più “americane”, tutto in un girotondo ipnotico sospinto dalle armonie dell’accordatura aperta della chitarra.

Il primo artista headliner della serata è stato il pianista Cesare Picco, coadiuvato all’elettronica da Taketo Gohara. Picco ha un tocco e un controllo pianistico paragonabile al velluto, dote non comune proprio a causa della natura fisica del pianoforte; ciononostante egli riesce a eseguire note come se lo strumento non avesse attacco, ma solo morbidezza di suono. I due, in sincronia grazie all’intesa di sguardi, hanno proposto suggestioni diverse, da sapori sudamericani a onirici e orizzontali paesaggi sonori, grazie anche al lavoro dell’ “alchimista dei suoni” (così chiamato da Picco) Taketo Gohara che, dal computer collegato a controller biometrici, faceva scivolare sul pubblico texture sonore per le frasi del pianoforte. Già, frasi, perché il pianoforte di Picco non solo “dice”, ma “racconta”, arriva dritto all’occhio della mente dell’ascoltatore, che riesce a “vedere” i paesaggi sonori che i due stanno modellando. Il pianista, in un vero rapporto “fisico” con lo strumento, utilizza spesso tecniche non convenzionali per suonarlo, accedendo ad esso dall’alto, direttamente sulle corde, mantenendo sempre uno straordinario senso del tempo e dando spazio a quella che lui stesso ha chiamato “la forza del silenzio”, la pari dignità della nota non suonata, che ha contribuito a creare le atmosfere rarefatte dei brani proposti. Picco e Gohara ci hanno fatto accomodare sui “sedili posteriori” della loro macchina, dai quali si potevano ammirare lenti e intensi paesaggi sonori che prendevano forma con una tale disinvoltura da far credere che suonare il pianoforte – finestra aperta sulle proprie emozioni – fosse la cosa più facile e naturale del mondo.

Ultima proposta musicale della serata è stato l’alternative folk della Matt Elliott Orchestra, formata, oltre che dallo stesso Elliott alle chitarre, flauto dolce e diamonica, da Patricia Arguelles Martinez al violino, Valerie Leqlerc al pianoforte, Benjamin Jarry al violoncello, e Betrand Groussard alla batteria. Pur partendo da un organico acustico che affida un mood ironico alle melodie sovracute del violino, il progetto di Matt Elliott parte spesso da frasi sussurrate e scure per giungere alla saturazione parossistica dei suoni, ricombinando frammenti esecutivi registrati dal vivo e che perdono via via qualità audio nella loro sovrapposizione fino a diventare quasi “rottami” sonori. Il tutto grazie ad una loop station nella mani di Elliott, una macchina che permette di campionare svariati secondi di esecuzione per rimandarli immediatamente in play, per poter eseguire altre parti su di essa: tutto dal vivo, niente di preregistrato. Nonostante una ripetitiva applicazione dello stesso schema compositivo che, dopo alcuni pezzi riserva poca sorpresa per l’ascoltatore, la musica della Matt Elliott Orchestra sembra avere una precisa e originale filosofia musicale: l’autodistruzione della musica acustica.

sabato 1 Dicembre 2007

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